lunedì 29 aprile 2019

QUEL GIORNO IN CUI FUI QUASI COMUNISTA




Roma. Stavo per l’appunto elucubrando su alcune facezie quando sentii trillare il mio campanello. Ponderai amleticamente se fosse proprio il caso di tirarmi su dal divano e ricevere quell’ospite inopportuno. Per l’occorrenza consultai anche i Vangeli: pare sia più facile che un questuante passi dalla serratura di un bravo cristiano piuttosto che un cammello per la cruna di un ago. Ma sì, al diavolo! E con noncurante impudenza andai ad aprire la porta in boxer, e con nient’altro che due gocce di profumo. Sulla soglia, come una Madonna, ecco l’apparizione di una figura femminile, e fu in quel preciso istante che mi resi conto della mia sconveniente impudicizia nel fare gli onori di casa. Senza alcuna pietà nel vedermi inerme nella mia mise da camera, la bella sconosciuta iniziò a millantare la sua appartenenza a un movimento comunista sventolandomi il giornale di partito sotto il naso. Da lungimirante borghese dovevo immaginarmelo che presto o tardi sarebbero venuti a espropriarmi. 
Misi da parte l’ultimo brandello di pudore e per darle il benvenuto mi concessi un paio di spiritosaggini su Marx con arguto e paternale sarcasmo. Eppure neanche le mie caustiche considerazioni sortirono l’effetto di dissuaderla dal suo proposito di convertirmi: d’altra parte niente che un uomo dica in déshabillé può avere una qualche credibilità.
Fu allora che appresi la più preziosa delle etichette di salotto, ovvero mai conversare di politica quando si indossa solo un paio di mutande.
Ora dovete sapere che ho la cattiva abitudine di assecondare spesso i postulanti che mi interpellano con le proprie beghe, e non so affatto se per benevola pigrizia o per non scoraggiarli nelle loro convinzioni. Una volta sottoscrissi un ordine di acquisto di cibi surgelati del valore di trenta denari per non turbare la serenità d’animo di un venditore porta a porta e lasciarlo nel rassicurante convincimento che la sua iniziativa di smerciare i propri prodotti in casa altrui fosse assolutamente lodevole. Insinuare il dubbio del ridicolo negli uomini può avere effetti irreparabili. La loro fragilità è contagiosa, e niente mi fa precipitare nel rimorso come avvelenare un’anima. Me lo ha diagnosticato anche il mio medico: se mai morirò, sarà per troppa delicatezza.
Ma torniamo alla nostra madonnina comunista. Dopo avermi illustrato per le brevi e per le lunghe il suo programma di redenzione del mondo, invocò la mia partecipazione all’imminente Ottobre Rosso. Tutt’ora non so cosa esattamente del mio atteggiamento l’abbia indotta a suppore un qualche entusiasmo per la causa.
Come ogni donna sentiva l’esigenza di convertire un uomo alla sua fede per convincersi della verità di essa. Potevo forse deluderla?
Il suo femminino e implacabile occhio scrutatore indagava da sopra a sotto il mio corpo quasi nudo come in una visita di leva. La diagnosi fu presto fatta: idoneo alla lotta proletaria.
Avrei potuto vigliaccamente tirarmi indietro ma, è il caso di ribadirlo, occorre troppa fermezza di spirito ad un uomo in mutande per sottrarsi ai propri doveri civili, soprattutto se intimati da una controparte femminile.
Le lasciai il mio numero di telefono con l’accordo che si sarebbe fatta sentire per ufficializzare l’arruolamento: la mia vita in abiti civili, per quanto pochi, aveva le ore contate.
Prima di andarsene quella insolente riuscì persino a rifilarmi il suo giornale, non sia mai venisse buono per incartarci il pesce.
Trascorsero un po’ di giorni in cui mi dimenticai dell’intera faccenda, ed ecco la fatidica telefonata.
Una voce misteriosa mi diede istruzioni sulle mie prossime mosse. Avrei dovuto dirigermi in metropolitana fino a “Vittorio Emanuele” e da lì sarei stato preso in custodia dalla mia Musa bolscevica e debitamente indottrinato come da programma.
Eseguii gli ordini senza fiatare. Perché lo feci? La ragazza era carina, convenni, e sarebbe stata una mostruosità rimanere insensibile al suo appello alle armi.
Questa volta però presi alcune precauzioni per non essere colto di sorpresa, e prima di mettere il naso fuori di casa mi assicurai meticolosamente di essermi infilato i pantaloni.
Mentre salivo le scale della stazione per affacciarmi sulla piazza, un improvviso fervore mi accese fino alla punta dei capelli: “Non avere paura mia cara, eccomi sto arrivando a salvarti dalle grinfie del drago capitalista!” Sì, era deciso, avrei strappato il cuore dal petto della bestia e glielo avrei offerto in dono. Poi con un bastone avrei tracciato i confini del nostro Eden, dove tutti gli uomini sarebbero stati liberi e uguali, e su cui io e la mia graziosa compagna avremmo regnato insieme come Re e Regina. 
Ero ancora immerso nelle mie fantasticherie quando due ceffi mi reclamarono all’uscita della stazione. Si accertarono che fossi io il prescelto, mentre io con una più attenta occhiata mi accertai che nessuno dei due fosse colei che mi aspettavo di trovare a quell’appuntamento.
Prendendomi ciascuno un braccio per scoraggiare ogni mio tentativo di fuga, come ligie guardie del corpo mi scortarono a lunghi passi verso il loro Quartier Generale. Mi stupii che non mi avessero anche bendato durante il tragitto.
Eccolo finalmente, il cuore pulsante della rivoluzione da cui si diramano le arterie che innervano il popolo, la stanza dei bottoni! Qui gli zelanti strateghi dell’avvenire covano i loro ponzamenti e distribuiscono le pedine sulla mappa per muovere scacco al padrone. 
Appena entrato nella tana rossa fui dato in consegna all’addetta alla segreteria per svolgere alcune formalità burocratiche. Ma sì ben venga: sfasciare tutto, d’accordo, ma con ordine.
Sul banchetto della scrupolosa e molto efficiente funzionaria c’era una pila di giornali di partito e fui caldamente invitato ad acquistarne uno. Non aspettavo altro. Tirai fuori dalle tasche il mio obolo per l’accesso al tempio della scienza marxista e misi con soddisfazione il giornale sottobraccio. 
Nel consegnarle il mio contributo alla causa raccomandai che fosse ben speso in Kalashnikov e fasciamenti. Ma l’austera impiegata redarguì scuotendo la testa il mio temperamento sanguinario: niente armi, la rivoluzione si sarebbe svolta civilmente nel rispetto della dialettica democratica, istruendo il popolo alla coscienza di classe.
Ma certo! Convertire il popolo sulla via di Damasco, e pure il cavallo magari…perché nessuno ci aveva pensato prima, dico io. 
Dopo che fui schedato e catalogato venni condotto davanti al grande capo in persona, il pezzo da novanta, colui cui spetterà il compito di condurre le briglie della belva rivoluzionaria.
Il tale era un bel ragazzo di qualche anno più grande di me, elegantemente abbigliato con camicia bianca e cravatta nera.
Mi scrutò con indaffarata circospezione, quasi a cercare nei miei occhi quella stessa fiamma che avrebbe incendiato il mondo. Suppongo che non la trovò.
Mi accennò brevemente alla politica del movimento. Un punto fermo era quello di non dare adito a confondere i suoi proseliti con la teppaglia dei centri sociali: niente droghe quindi, e una certa rispettabilità nel vestire. Iniziare a lavarsi, devo darne atto, sarà il primo passo della sommossa comunista. Il buon odore è un necessario collante fra il popolo e la classe dirigente. In caso contrario chi mai inseguirebbe la scia della rivoluzione?
Mi guardai intorno per un momento, e difatti non ravvisai quella promiscuità e sudiciume post sessantottino che mi aspettavo di trovare. Non sapevo se avrei contratto la fede marxista, ma almeno non avrei contratto i pidocchi.
Prima di congedarmi mi informò che avrebbe tenuto una conferenza a breve, e mi invitò a presenziare.
Nell’attesa presi a gironzolare nella sala, in mezzo alle operose api rivoluzionarie che ronzavano indaffarate in una fanfara di pugni chiusi.
Deciso a sfuggire a eventuali coinvolgimenti voltai lo sguardo ovunque per cogliere i dettagli di quella scena del crimine, di cui io evidentemente ero destinato a essere il corpo del reato.
Devo confessarvi che mi sentii piuttosto a disagio poiché i personaggi che sporgevano il naso dai ritratti esposti sulle pareti avevano tutta l’aria di essere gente che avrei dovuto conoscere, e i loro sguardi accigliati sembravano rimproverare la mia impunita ignoranza sul loro conto.
Stavo giusto interrogando quegli ospiti musoni, quando la campanella ci invitò a prendere posto per la messa. La conferenza aveva inizio.
Dopo alcune letture dal Vangelo secondo Lenin, il nostro implacabile oratore si soffermò ad analizzare cause e concause della guerra in Siria. Saltai di sobbalzo sulla sedia: c’era una guerra in Siria?? Da tre anni?? E lo venivo a sapere solo ora?? La sua didascalica esposizione fu interessante, non dico di no, ma dopo il primo sussulto dovetti fingere di non russare per il resto della funzione, il che fu un compito davvero ingrato dal momento che i conflitti internazionali mi causano sonnolenza. 
Conclusasi quell’esperienza pedagogica, un interrogativo solcò la fronte dei miei dirimpettai: cosa dovevano farne di me?
Presto detto, dopo una rapida ma assolutamente efficace infarinatura dottrinale, era giunto per me il momento di fare esperienza sul campo. Rotolarmi nel fango della battaglia, non aspettavo altro.
Per l’occasione fui consegnato nelle mani di un paio di miliziani, miei coetanei, per il rituale iniziatico. KGB? Spionaggio? Guerra di trincea? Attentato politico? Ero pronto a tutto.
Stavo appunto suonando la carica quando uno dei due mi mise un plico di giornali tra le mani. Niente di tutto questo, si va a convertire il popolo!



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