Ci avventurammo tutti e tre nel traffico della città, verso
un predestinato quartiere da evangelizzare allo scopo. Prendersi Roma un pezzo
alla volta.
Durante il tragitto i miei fidi scudieri mi resero edotto
sull’organizzazione e gli obbiettivi del movimento. La rivoluzione si sarebbe
combattuta fra le barricate della democrazia, senza spargere una sola goccia di
sangue (siamo pur sempre in tempi di crisi e dai nostri anemici cittadini non
ci si può cavare più globuli rossi che da una rapa). Niente vittime, solo
proseliti. E il popolo? Avrebbe creduto, pur senza aver veduto. Sarebbe stato
il popolo a incoronare il nuovo ordine sul legittimo trono. Bastava svegliarlo,
ed era per l’appunto ciò che stavamo andando a fare.
La conversazione si faceva intima, e i due mi svelarono alcuni dettagli del modus operandi del partito. Tra le varie cose appresi che veniva aggiornato un personale fascicolo sui singoli militanti, e anche una rigorosa mappatura della città: di ogni residente passato a setaccio si conosceva l’inclinazione verso la causa e la prodigalità mecenatica. Ovvero qualora si fosse lasciata una questua al partito non si assolveva un debito ma lo si assumeva. Una croce rossa, attinta dalle viscere degli agnelli, marchia gli stipiti delle porte per orientare la furia dei collettori esattoriali.
Chiesi allora se avessero già messo a punto un fascicolo su di me. Ma entrambi distolsero lo sguardo lasciando cadere la mia domanda nel vuoto.
Ovviamente approfittarono del tempo a disposizione anche per provvedere al mio indottrinamento, sciorinando un convincente panegirico sul comunismo.
Non nascosi il mio stupore quando mi confidarono che, lo giuro, una volta istituita la dittatura del proletariato, ci sarebbe stato lavoro per tutti quanti noi (anche per me immagino, la qual cosa mi suonò piuttosto come una minaccia). Ma non solo. Dal momento che avremmo lavorato tutti ne consegue, pensate un po’, che avremmo lavorato tutti di meno. Questa sì che era una bella notizia, anche se la prospettiva che i miei simili abbiano molto più tempo libero a disposizione non la trovo affatto rassicurante.
Insomma vivremo tutti idillicamente, in un tripudio di fratellanza. Il tempo che risparmieremo lavorando lo trascorreremo in festosi girotondi e intonando canti encomiastici al Partito.
La conversazione si faceva intima, e i due mi svelarono alcuni dettagli del modus operandi del partito. Tra le varie cose appresi che veniva aggiornato un personale fascicolo sui singoli militanti, e anche una rigorosa mappatura della città: di ogni residente passato a setaccio si conosceva l’inclinazione verso la causa e la prodigalità mecenatica. Ovvero qualora si fosse lasciata una questua al partito non si assolveva un debito ma lo si assumeva. Una croce rossa, attinta dalle viscere degli agnelli, marchia gli stipiti delle porte per orientare la furia dei collettori esattoriali.
Chiesi allora se avessero già messo a punto un fascicolo su di me. Ma entrambi distolsero lo sguardo lasciando cadere la mia domanda nel vuoto.
Ovviamente approfittarono del tempo a disposizione anche per provvedere al mio indottrinamento, sciorinando un convincente panegirico sul comunismo.
Non nascosi il mio stupore quando mi confidarono che, lo giuro, una volta istituita la dittatura del proletariato, ci sarebbe stato lavoro per tutti quanti noi (anche per me immagino, la qual cosa mi suonò piuttosto come una minaccia). Ma non solo. Dal momento che avremmo lavorato tutti ne consegue, pensate un po’, che avremmo lavorato tutti di meno. Questa sì che era una bella notizia, anche se la prospettiva che i miei simili abbiano molto più tempo libero a disposizione non la trovo affatto rassicurante.
Insomma vivremo tutti idillicamente, in un tripudio di fratellanza. Il tempo che risparmieremo lavorando lo trascorreremo in festosi girotondi e intonando canti encomiastici al Partito.
E per avere tutto questo sarebbe bastato smerciare il nostro
giornale nelle case degli italiani. Non c’era tempo da perdere, dovevamo
sbrigarci.
Ma di tutte le cose di cui parlammo, ciò che più mi rimase
impresso fu quanto sentenziò uno dei miei precettori, non senza un surplus di
sovreccitata indignazione proletaria: “È ingiusto che solo i ricchi possano
avere una Ferrari, anche l’operaio ha diritto ad averne una”. Riflettendo mi resi
conto che proprio in questo paradosso si risolve la sintesi del comunismo. Il
liberalismo invece esige che sia solo il ricco a possedere una Ferrari, non
fosse altro che per dare un valore alla Ferrari, il che rappresenta almeno un
dimezzamento del problema. Personalmente non ho niente contro la Ferrari, ma se
l’Uomo è in grado di progettare qualcosa di inappuntabile pregio estetico come
una Ferrari dovrebbe poi avere anche la fermezza di vietare sia al ricco che al
povero di accomodarci sopra le proprie natiche.
Poi finalmente giungemmo alla meta prefissata. Scampanellammo
al citofono di uno stabile condominiale ed eccoci dentro le interiora del
popolo per insinuare il germe della rivoluzione. La missione era la seguente:
bussare ad ogni singola porta del condominio, convertire i pagani alla nuova
Fede e, se possibile, piazzare il nostro giornale.
Mi accodai a entrambi i miei Virgilii in quell’ambizioso
percorso di purificazione: loro mi avrebbero insegnato cosa fare.
“Din Don. Qui lotta comunista! Il frutto della rivoluzione è
maturo per essere colto. Non ci crede? E’ scritto qui sul giornale, guardi!
Sissignore noi comunisti esistiamo ancora, anche questo è scritto sul giornale”.
Le reazioni erano le più disparate: alcuni non aprivano
affatto, risparmiandoci questa pena; altri, pentitosi dell’errore, fingevano un
contrattempo o una faccenda domestica improrogabile da sbrigare; altri ancora
neanche si impegnavano a fingere; qualche vecchio militante, che aveva visto
infrangersi la sua ideologia giovanile e annegato la delusione nel palliativo
del proprio stipendio da impiegato statale, si intratteneva a chiacchierare incoraggiandoci alla lotta, ma non comprava il giornale; altri
erano in vena di consigli e apostrofavano la poca efficace politica del
movimento, anche per questo non compravano il giornale.
Io intanto mi vergognavo come un cane: mi nascondevo dietro
le spalle dei miei compagni o assumevo l’aria di uno che si trovasse a passare
sul pianerottolo per puro caso. Mi sentivo compromesso. Comunismo? Come suonava
antiquato e impudente. Una volgarità da non pronunciare a tavola.
Quando qualcuno si esibiva in un’arringa per sottolineare il
buffo anacronismo della situazione, e incrociava il mio sguardo, annuivo con il
capo accennando un sorriso di complicità con quanto diceva e di affettuoso
rimprovero verso i miei compagni.
Ma sapevo che non avrei potuto cavarmela così a buon mercato.
Presto giunse quel momento che pendeva come una spada di Damocle sulla mia
testa: avrei dovuto io personalmente propagandare il Verbo ai miei concittadini.
Dal momento che ero tenuto in ostaggio non avevo nessuna
intenzione di fare la figura del pusillanime e decisi di trangugiare il mio
calice tutto d’un sorso. Animus tuus dominus, e sia.
Ricordo ancora la pena che provai la prima volta che suonai
il campanello. I passi all’altro lato della porta si facevano sempre più
prossimi al ritmo delle mie pulsazioni. Una voce tuonò la più ovvia delle
domande: “Chi è?”. La voce di una vecchietta, senza dubbio. Forse avevo qualche
chance. Farfugliai qualcosa di incomprensibile nella speranza di essere
scambiato per uno svaligiatore di appartamenti o un commesso viaggiatore, quale
dopotutto ero. Il piano funzionò e sentii i passi allontanarsi come erano
venuti. Un sospiro di sollievo mi sgonfiò i polmoni, e mi voltai verso i miei
compagni stemperando la tensione con una battuta: “Forse non ci ha aperto
perché pensava che eravamo comunisti!”.
Questa prova di coraggio non appagò il sadico appetito degli
altri due. Altre scale, altro appartamento. I successivi tentativi andarono
miracolosamente a vuoto: gli inquilini non erano in casa, presumo. Ogni attesa
era un tuffo al cuore, e ogni volta, scampato il pericolo, mi volgevo verso i
miei carcerieri alzando le spalle con una smorfia di rammaricata impotenza,
come a dire: “Vedete compagni, io ce la sto mettendo tutta. Che ci posso fare?”.
Non potevo passarla liscia ancora per molto. La prima volta
che mi trovai faccia a faccia con il popolo in carne ed ossa rischiai quasi uno
svenimento.
Era davanti a me, in tutta la sua maestosa indolenza, con un
interrogativo sulla bocca che invitava a motivare una giustificazione per il
suo disturbo: il genio della coscienza popolare era stato evocato, ed ora
esigeva istruzioni.
“Sono qui per la lotta operaia”, dissi, cercando di
mantenermi serio. Ma il tono era piuttosto quello di una domanda. Biascicai
dell’altro, e mentre parlavo dovetti sforzarmi di non ridere per il ridicolo in
cui mi ero cacciato. Dopo una manciata di frasi avevo terminato le mie
argomentazioni per convertirlo alla fede bolscevica. Anzi speravo che a quel
punto fosse stato lui a convincermi della mia. Lo guardi con occhi imploranti
aspettando un gesto rassicurante, una mano sulla spalla, un incitamento alla
rivolta. D’accordo non avevo detto granché, ma una cieca e incondizionata
obbedienza era il minimo tributo che esigevo dalla credulità popolare.
In quel breve e imbarazzante momento intervenne la cavalleria
in mio soccorso. E fui salvo. Avevo concimato il terreno, ora toccava a loro
coltivarlo. Alla fine ce la cavammo più che bene, ma non vendemmo il giornale.
Fiero del mio piccolo contributo alla causa riprendemmo la
rotta verso il Quartier Generale. La Buona Novella era stata seminata, presto i
suoi frutti avrebbero attecchito.
Sulla strada del ritorno i due compagni, finalmente convinti
delle mie abilità di persuasore, mi lusingarono con questa proposta: nel mio
tempo libero avrei contrabbandato la parola di Marx in ogni angolo di Roma. Il
comunismo aveva bisogno di un nuovo profeta.
Eccola la mia investitura, portavoce della redenzione
popolare! Il Destino mi srotolava davanti la sua coda come un tappeto rosso.
Soldato senza esercito avevo finalmente trovato una vocazione: annientare la
dittatura capitalista a colpi di toc toc.
Ovviamente la cosa era solo temporanea, dopo alcuni anni di
gavetta sul campo avrei potuto scalare la piramide del partito e ambire a
mansioni ancora più onorevoli. Magari una posizione da segretario d’ufficio, se
dimostravo di saperci fare.
La cosa non mi entusiasmava affatto, e allora dissi: “la cosa
non mi entusiasma affatto”. Per non sembrare il pigro indolente che sono,
millantai di presunti impegni e convergenze varie che mi impedivano di
assolvere il pur lodevole compito a cui ero stato eletto.
E poi diciamocelo chiaramente, ero sprecato. Io e il popolo
non avevamo più niente da dirci da un bel po’. Perché avrei dovuto rivolgergli
la parola? Un’eminenza grigia che tira i fili della rivoluzione da dietro le
quinte, questo potevo farlo. Ma parlare con il popolo non se ne parla affatto,
è una cosa troppo promiscua. Si rischia di contrarre qualche malattia. Magari,
e parlo per ipotesi, se mi si offrisse un impiego dirigenziale profumatamente
pagato, forse lo accetterei, ma solo per il bene del popolo s’intende. Per il
resto ho altre cose più gratificanti da fare nel mio tempo libero che salvare
l’umanità.
Buttai giù queste ed altre considerazioni in faccia ai miei
mentori, ma non credo riuscii nel proposito di farmi prendere sul serio. Eppure
avevo i pantaloni addosso, ne sono quasi certo.
Ci lasciammo con la promessa che si sarebbero fatti vivi loro
per pianificare gli ultimi dettagli della rivoluzione.
Da quel giorno non si fecero più sentire e non vidi più
nessun comunista alla mia porta di casa. Il mio appartamento è stato depennato
dalla scacchiera della rivoluzione, e di questo sono profondamente grato. Ma
una domanda talvolta mi prude alla testa e mi toglie il sonno: cosa avranno
scritto nel mio fascicolo?
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