lunedì 29 aprile 2019

QUEL GIORNO IN CUI FUI QUASI COMUNISTA (seconda ed ultima parte)


Ci avventurammo tutti e tre nel traffico della città, verso un predestinato quartiere da evangelizzare allo scopo. Prendersi Roma un pezzo alla volta.
Durante il tragitto i miei fidi scudieri mi resero edotto sull’organizzazione e gli obbiettivi del movimento. La rivoluzione si sarebbe combattuta fra le barricate della democrazia, senza spargere una sola goccia di sangue (siamo pur sempre in tempi di crisi e dai nostri anemici cittadini non ci si può cavare più globuli rossi che da una rapa). Niente vittime, solo proseliti. E il popolo? Avrebbe creduto, pur senza aver veduto. Sarebbe stato il popolo a incoronare il nuovo ordine sul legittimo trono. Bastava svegliarlo, ed era per l’appunto ciò che stavamo andando a fare.
La conversazione si faceva intima, e i due mi svelarono alcuni dettagli del modus operandi del partito. Tra le varie cose appresi che veniva aggiornato un personale fascicolo sui singoli militanti, e anche una rigorosa mappatura della città: di ogni residente passato a setaccio si conosceva l’inclinazione verso la causa e la prodigalità mecenatica. Ovvero qualora si fosse lasciata una questua al partito non si assolveva un debito ma lo si assumeva. Una croce rossa, attinta dalle viscere degli agnelli, marchia gli stipiti delle porte per orientare la furia dei collettori esattoriali.
Chiesi allora se avessero già messo a punto un fascicolo su di me. Ma entrambi distolsero lo sguardo lasciando cadere la mia domanda nel vuoto. 
Ovviamente approfittarono del tempo a disposizione anche per provvedere al mio indottrinamento, sciorinando un convincente panegirico sul comunismo.
Non nascosi il mio stupore quando mi confidarono che, lo giuro, una volta istituita la dittatura del proletariato, ci sarebbe stato lavoro per tutti quanti noi (anche per me immagino, la qual cosa mi suonò piuttosto come una minaccia). Ma non solo. Dal momento che avremmo lavorato tutti ne consegue, pensate un po’, che avremmo lavorato tutti di meno. Questa sì che era una bella notizia, anche se la prospettiva che i miei simili abbiano molto più tempo libero a disposizione non la trovo affatto rassicurante.
Insomma vivremo tutti idillicamente, in un tripudio di fratellanza. Il tempo che risparmieremo lavorando lo trascorreremo in festosi girotondi e intonando canti encomiastici al Partito.
E per avere tutto questo sarebbe bastato smerciare il nostro giornale nelle case degli italiani. Non c’era tempo da perdere, dovevamo sbrigarci. 
Ma di tutte le cose di cui parlammo, ciò che più mi rimase impresso fu quanto sentenziò uno dei miei precettori, non senza un surplus di sovreccitata indignazione proletaria: “È ingiusto che solo i ricchi possano avere una Ferrari, anche l’operaio ha diritto ad averne una”. Riflettendo mi resi conto che proprio in questo paradosso si risolve la sintesi del comunismo. Il liberalismo invece esige che sia solo il ricco a possedere una Ferrari, non fosse altro che per dare un valore alla Ferrari, il che rappresenta almeno un dimezzamento del problema. Personalmente non ho niente contro la Ferrari, ma se l’Uomo è in grado di progettare qualcosa di inappuntabile pregio estetico come una Ferrari dovrebbe poi avere anche la fermezza di vietare sia al ricco che al povero di accomodarci sopra le proprie natiche. 
Poi finalmente giungemmo alla meta prefissata. Scampanellammo al citofono di uno stabile condominiale ed eccoci dentro le interiora del popolo per insinuare il germe della rivoluzione. La missione era la seguente: bussare ad ogni singola porta del condominio, convertire i pagani alla nuova Fede e, se possibile, piazzare il nostro giornale. 
Mi accodai a entrambi i miei Virgilii in quell’ambizioso percorso di purificazione: loro mi avrebbero insegnato cosa fare.
“Din Don. Qui lotta comunista! Il frutto della rivoluzione è maturo per essere colto. Non ci crede? E’ scritto qui sul giornale, guardi! Sissignore noi comunisti esistiamo ancora, anche questo è scritto sul giornale”.
Le reazioni erano le più disparate: alcuni non aprivano affatto, risparmiandoci questa pena; altri, pentitosi dell’errore, fingevano un contrattempo o una faccenda domestica improrogabile da sbrigare; altri ancora neanche si impegnavano a fingere; qualche vecchio militante, che aveva visto infrangersi la sua ideologia giovanile e annegato la delusione nel palliativo del proprio stipendio da impiegato statale, si intratteneva a chiacchierare incoraggiandoci alla lotta, ma non comprava il giornale; altri erano in vena di consigli e apostrofavano la poca efficace politica del movimento, anche per questo non compravano il giornale.
Io intanto mi vergognavo come un cane: mi nascondevo dietro le spalle dei miei compagni o assumevo l’aria di uno che si trovasse a passare sul pianerottolo per puro caso. Mi sentivo compromesso. Comunismo? Come suonava antiquato e impudente. Una volgarità da non pronunciare a tavola. 
Quando qualcuno si esibiva in un’arringa per sottolineare il buffo anacronismo della situazione, e incrociava il mio sguardo, annuivo con il capo accennando un sorriso di complicità con quanto diceva e di affettuoso rimprovero verso i miei compagni.
Ma sapevo che non avrei potuto cavarmela così a buon mercato. Presto giunse quel momento che pendeva come una spada di Damocle sulla mia testa: avrei dovuto io personalmente propagandare il Verbo ai miei concittadini.
Dal momento che ero tenuto in ostaggio non avevo nessuna intenzione di fare la figura del pusillanime e decisi di trangugiare il mio calice tutto d’un sorso. Animus tuus dominus, e sia.
Ricordo ancora la pena che provai la prima volta che suonai il campanello. I passi all’altro lato della porta si facevano sempre più prossimi al ritmo delle mie pulsazioni. Una voce tuonò la più ovvia delle domande: “Chi è?”. La voce di una vecchietta, senza dubbio. Forse avevo qualche chance. Farfugliai qualcosa di incomprensibile nella speranza di essere scambiato per uno svaligiatore di appartamenti o un commesso viaggiatore, quale dopotutto ero. Il piano funzionò e sentii i passi allontanarsi come erano venuti. Un sospiro di sollievo mi sgonfiò i polmoni, e mi voltai verso i miei compagni stemperando la tensione con una battuta: “Forse non ci ha aperto perché pensava che eravamo comunisti!”.
Questa prova di coraggio non appagò il sadico appetito degli altri due. Altre scale, altro appartamento. I successivi tentativi andarono miracolosamente a vuoto: gli inquilini non erano in casa, presumo. Ogni attesa era un tuffo al cuore, e ogni volta, scampato il pericolo, mi volgevo verso i miei carcerieri alzando le spalle con una smorfia di rammaricata impotenza, come a dire: “Vedete compagni, io ce la sto mettendo tutta. Che ci posso fare?”.
Non potevo passarla liscia ancora per molto. La prima volta che mi trovai faccia a faccia con il popolo in carne ed ossa rischiai quasi uno svenimento.
Era davanti a me, in tutta la sua maestosa indolenza, con un interrogativo sulla bocca che invitava a motivare una giustificazione per il suo disturbo: il genio della coscienza popolare era stato evocato, ed ora esigeva istruzioni. 
“Sono qui per la lotta operaia”, dissi, cercando di mantenermi serio. Ma il tono era piuttosto quello di una domanda. Biascicai dell’altro, e mentre parlavo dovetti sforzarmi di non ridere per il ridicolo in cui mi ero cacciato. Dopo una manciata di frasi avevo terminato le mie argomentazioni per convertirlo alla fede bolscevica. Anzi speravo che a quel punto fosse stato lui a convincermi della mia. Lo guardi con occhi imploranti aspettando un gesto rassicurante, una mano sulla spalla, un incitamento alla rivolta. D’accordo non avevo detto granché, ma una cieca e incondizionata obbedienza era il minimo tributo che esigevo dalla credulità popolare.
In quel breve e imbarazzante momento intervenne la cavalleria in mio soccorso. E fui salvo. Avevo concimato il terreno, ora toccava a loro coltivarlo. Alla fine ce la cavammo più che bene, ma non vendemmo il giornale.
Fiero del mio piccolo contributo alla causa riprendemmo la rotta verso il Quartier Generale. La Buona Novella era stata seminata, presto i suoi frutti avrebbero attecchito.
Sulla strada del ritorno i due compagni, finalmente convinti delle mie abilità di persuasore, mi lusingarono con questa proposta: nel mio tempo libero avrei contrabbandato la parola di Marx in ogni angolo di Roma. Il comunismo aveva bisogno di un nuovo profeta.
Eccola la mia investitura, portavoce della redenzione popolare! Il Destino mi srotolava davanti la sua coda come un tappeto rosso. Soldato senza esercito avevo finalmente trovato una vocazione: annientare la dittatura capitalista a colpi di toc toc. 
Ovviamente la cosa era solo temporanea, dopo alcuni anni di gavetta sul campo avrei potuto scalare la piramide del partito e ambire a mansioni ancora più onorevoli. Magari una posizione da segretario d’ufficio, se dimostravo di saperci fare. 
La cosa non mi entusiasmava affatto, e allora dissi: “la cosa non mi entusiasma affatto”. Per non sembrare il pigro indolente che sono, millantai di presunti impegni e convergenze varie che mi impedivano di assolvere il pur lodevole compito a cui ero stato eletto.
E poi diciamocelo chiaramente, ero sprecato. Io e il popolo non avevamo più niente da dirci da un bel po’. Perché avrei dovuto rivolgergli la parola? Un’eminenza grigia che tira i fili della rivoluzione da dietro le quinte, questo potevo farlo. Ma parlare con il popolo non se ne parla affatto, è una cosa troppo promiscua. Si rischia di contrarre qualche malattia. Magari, e parlo per ipotesi, se mi si offrisse un impiego dirigenziale profumatamente pagato, forse lo accetterei, ma solo per il bene del popolo s’intende. Per il resto ho altre cose più gratificanti da fare nel mio tempo libero che salvare l’umanità.
Buttai giù queste ed altre considerazioni in faccia ai miei mentori, ma non credo riuscii nel proposito di farmi prendere sul serio. Eppure avevo i pantaloni addosso, ne sono quasi certo.
Ci lasciammo con la promessa che si sarebbero fatti vivi loro per pianificare gli ultimi dettagli della rivoluzione.
Da quel giorno non si fecero più sentire e non vidi più nessun comunista alla mia porta di casa. Il mio appartamento è stato depennato dalla scacchiera della rivoluzione, e di questo sono profondamente grato. Ma una domanda talvolta mi prude alla testa e mi toglie il sonno: cosa avranno scritto nel mio fascicolo?


Perché la filosofia trae origine da esigenze gastronomiche, 

ed elogio del foie gras



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