giovedì 20 dicembre 2018

SULL'ARTE (Parte II)




L’architettura, al pari della natura, incarna direttamente l’idealità dell’oggetto e quindi presuppone un rapporto immediato e primordiale con l’osservatore. Persino il tempo, che l’inganno dell’arte dovrebbe eludere, esercita il suo influsso sulla materia adeguandola secondo il proprio gusto. La pittura rappresenta uno stadio più elevato di sublimazione in quanto la materia viene filtrata dalla sua rappresentazione e il fatto che non si possa fumare la pipa di Magritte consente allo spettatore di potersene assuefare senza che ciò nuoccia alla sua salute. La poesia attinge a una sfera più eterea di godimento in quanto non rappresenta l’idea, ma allude ad essa per mezzo di un’intuizione sonora. La musica, infine, rende ovvia la verità ultima dell’arte e della vita, ovvero che non vi è alcun oggetto.

Un esteta dovrebbe sapersi radere la mattina con il quartetto op. 55 n. 2 di Haydn ed essere a tal punto anemico di spirito da non insanguinare il lavandino.

Solo nella sorgente della musica si può attingere la legge morale dell’universo.

L’arte è un atto di gratitudine che l’artista rende alla Bellezza tutte le volte che quest’ultima non cede all’impulso di ucciderlo.

A teatro niente è più patetico di un’eroina che cerca il coinvolgimento emozionale del pubblico attraverso le proprie disavventure. Esse non possono essere giustificate che dal puro estetismo letterario. Quando lo spunto della tragedia è di sollecitare l’esasperazione sentimentale degli spettatori, l’eroina perde immediatamente la propria trascendenza per incarnare la prosaicità ideale di una qualsiasi moglie in cerca di compatimento. E’ inevitabile, allora, il fastidio dello spettatore per cui l’autenticità del teatro è principalmente evasione dalla messinscena della realtà.

L’applauso a teatro è una chiassosa cospirazione del pubblico dilettante per guastare il sonno del critico d’arte.  

Occorre salvare il pubblico dall’invasività del teatro sperimentale. Gli effetti collaterali sulle cavie sono irreversibili, alcune maturano persino uno spirito artistico.

Le aspettative degli spettatori alla prima di un’opera lusingano il teatro al punto che è inevitabile che quest’ultimo rimanga poi deluso del proprio pubblico.

Le lavandaie non si sforzano più di parlare come pretenderebbe una sceneggiatura teatrale, né l’arte può sforzarsi di parlare come una lavandaia. La conseguenza di ciò è che le lavandaie scrivono, e che l’arte è annegata nell’Arno mentre tentava di lavarsi da sola i panni sporchi.

Un critico teatrale dovrebbe essere sempre fatto accomodare in piccionaia di modo che la lontananza gli precluda qualsiasi coinvolgimento emotivo con la rappresentazione e non comprometta l’obbiettività del suo giudizio. Forse sarebbe persino opportuno non consentirgli di mettere piede a teatro ma ormai chiunque, anche un funzionario dell’Agenzia delle Entrate, ha libero accesso al tempio di Melpomene. Pertanto non ho nulla in contrario che a un critico teatrale sia permesso di presenziare ad uno spettacolo se questo bastasse a evitare che un agente del fisco maturi una propria opinione in proposito e purché, sia inteso, non si faccia distrarre da ciò che viene inscenato sul palco. La critica non dovrebbe lasciarsi influenzare dal proprio oggetto, piuttosto sarebbe auspicabile il contrario, e già il fatto che l’arte si presti a un giudizio dello spettatore testimonia il suo fallimento.

Solo chi difetta di spirito si annoia a teatro, coloro che ne hanno abbastanza semplicemente sbadigliano.
Le avanguardie artistiche sono sempre in anticipo sul loro tempo, ma la Bellezza preferisce farsi attendere alla porta per farsi bella.

Si suppone che la civetteria della natura abbia adeguato i propri paesaggi secondo i gusti degli impressionisti e non è irragionevole ritenere che Dio si sia ispirato a Turner quando ha ideato il tramonto e a Picasso quando ha progettato l’uomo moderno. Ma ciò è troppo suggestivo e sarebbe più ragionevole ritenere che sia la civetteria dell’uomo moderno che aspiri a somigliare a una tela di Picasso e che i tramonti esistono solo dal momento che sono stati dipinti. Se così non fosse la natura, che da sempre subordina la necessità al gusto, correrebbe in soccorso dei pittori che non sanno dipingere e a quel punto anche Dio sarebbe tentato di esporre la propria opera in un vernissage.

Le mostre di arte contemporanea sono luoghi barbarici in cui vengono appesi al muro i quadri invece dei pittori.

Un frutto, una volta che viene dipinto, cessa di essere commestibile essendo lo scopo dell’arte quello di sublimare la natura e sottrarla ai propri fini utilitaristici. Ma il punto di arrivo dell’arte sarà quello di permettere al filisteo di apparecchiare la tavola con una tela e di mangiarci sopra.
Il pittore non deve imitare la natura, o Dio verrebbe giustamente accusato di plagio. 
Se un pittore realista dipingesse una scarpa, dal momento che non allude all’idea originaria ma prende il calco alla natura con la perizia de calzolaio, quest’ultima potrebbe essere comodamente calzata solo dal suo proprietario legittimo, e chiunque se ne appropriasse in sua vece non riuscirebbe a spingersi oltre senza che poi gli dolgano i piedi.

Il pubblico è la botte delle Danaidi che l’artista pretende di colmare, ma finisce solo con l’annacquarlo.
In ambito artistico il borghese ama qualsiasi cosa lo faccia sentire abbastanza intelligente da non arrischiarsi di capirla.

L’unico modo per riconoscere un valore artistico a una pittura è quello di appenderla nel salotto di un commesso comunale e verificare se è lo stesso in grado di conferire un gusto all’ambiente.


SULL'ARTE (Parte III)



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