L’architettura, al pari della natura, incarna direttamente l’idealità dell’oggetto e quindi presuppone un rapporto immediato e primordiale con l’osservatore. Persino il tempo, che l’inganno dell’arte dovrebbe eludere, esercita il suo influsso sulla materia adeguandola secondo il proprio gusto. La pittura rappresenta uno stadio più elevato di sublimazione in quanto la materia viene filtrata dalla sua rappresentazione e il fatto che non si possa fumare la pipa di Magritte consente allo spettatore di potersene assuefare senza che ciò nuoccia alla sua salute. La poesia attinge a una sfera più eterea di godimento in quanto non rappresenta l’idea, ma allude ad essa per mezzo di un’intuizione sonora. La musica, infine, rende ovvia la verità ultima dell’arte e della vita, ovvero che non vi è alcun oggetto.
Un esteta dovrebbe sapersi radere la mattina con il quartetto op. 55 n.
2 di Haydn ed essere a tal punto anemico di spirito da non insanguinare il
lavandino.
Solo nella sorgente della musica si può
attingere la legge morale dell’universo.
L’arte è un atto di
gratitudine che l’artista rende alla Bellezza tutte le volte che quest’ultima non
cede all’impulso di ucciderlo.
A teatro niente è più
patetico di un’eroina che cerca il coinvolgimento emozionale del pubblico
attraverso le proprie disavventure. Esse non possono essere giustificate che
dal puro estetismo letterario. Quando lo spunto della tragedia è di sollecitare
l’esasperazione sentimentale degli spettatori, l’eroina perde immediatamente la
propria trascendenza per incarnare la prosaicità ideale di una qualsiasi moglie
in cerca di compatimento. E’ inevitabile, allora, il fastidio dello spettatore
per cui l’autenticità del teatro è principalmente evasione dalla messinscena
della realtà.
L’applauso a teatro è
una chiassosa cospirazione del pubblico dilettante per guastare il sonno del
critico d’arte.
Occorre salvare il pubblico dall’invasività
del teatro sperimentale. Gli effetti collaterali sulle cavie sono
irreversibili, alcune maturano persino uno spirito artistico.
Le aspettative degli
spettatori alla prima di un’opera lusingano il teatro al punto che è
inevitabile che quest’ultimo rimanga poi deluso del proprio pubblico.
Le lavandaie non si sforzano più di parlare
come pretenderebbe una sceneggiatura teatrale, né l’arte può sforzarsi di
parlare come una lavandaia. La conseguenza di ciò è che le lavandaie scrivono,
e che l’arte è annegata nell’Arno mentre tentava di lavarsi da sola i panni
sporchi.
Un critico teatrale dovrebbe essere sempre
fatto accomodare in piccionaia di modo che la lontananza gli precluda qualsiasi
coinvolgimento emotivo con la rappresentazione e non comprometta l’obbiettività
del suo giudizio. Forse sarebbe persino opportuno non consentirgli di mettere
piede a teatro ma ormai chiunque, anche un funzionario dell’Agenzia delle
Entrate, ha libero accesso al tempio di Melpomene. Pertanto non ho nulla in
contrario che a un critico teatrale sia permesso di presenziare ad uno
spettacolo se questo bastasse a evitare che un agente del fisco maturi una
propria opinione in proposito e purché, sia inteso, non si faccia distrarre da
ciò che viene inscenato sul palco. La critica non dovrebbe lasciarsi
influenzare dal proprio oggetto, piuttosto sarebbe auspicabile il contrario, e
già il fatto che l’arte si presti a un giudizio dello spettatore testimonia il
suo fallimento.
Solo chi difetta di spirito si annoia a teatro, coloro che ne hanno
abbastanza semplicemente sbadigliano.
Le avanguardie artistiche sono sempre in
anticipo sul loro tempo, ma la Bellezza preferisce farsi attendere alla porta
per farsi bella.
Si suppone che la civetteria della natura
abbia adeguato i propri paesaggi secondo i gusti degli impressionisti e non è
irragionevole ritenere che Dio si sia ispirato a Turner quando ha ideato il
tramonto e a Picasso quando ha progettato l’uomo moderno. Ma ciò è troppo
suggestivo e sarebbe più ragionevole ritenere che sia la civetteria dell’uomo
moderno che aspiri a somigliare a una tela di Picasso e che i tramonti esistono
solo dal momento che sono stati dipinti. Se così non fosse la natura, che da
sempre subordina la necessità al gusto, correrebbe in soccorso dei pittori che
non sanno dipingere e a quel punto anche Dio sarebbe tentato di esporre la
propria opera in un vernissage.
Le mostre di arte contemporanea
sono luoghi barbarici in cui vengono appesi al muro i quadri invece dei
pittori.
Un frutto, una volta che viene dipinto, cessa di essere commestibile
essendo lo scopo dell’arte quello di sublimare la natura e sottrarla ai propri
fini utilitaristici. Ma il punto di arrivo dell’arte sarà quello di permettere
al filisteo di apparecchiare la tavola con una tela e di mangiarci sopra.
Il pittore non deve imitare la natura, o Dio verrebbe giustamente
accusato di plagio.
Se un pittore realista dipingesse una
scarpa, dal momento che non allude all’idea originaria ma prende il calco alla
natura con la perizia de calzolaio, quest’ultima potrebbe essere comodamente
calzata solo dal suo proprietario legittimo, e chiunque se ne appropriasse in
sua vece non riuscirebbe a spingersi oltre senza che poi gli dolgano i piedi.
Il pubblico è la botte delle Danaidi che l’artista pretende di colmare,
ma finisce solo con l’annacquarlo.
In ambito artistico il borghese ama
qualsiasi cosa lo faccia sentire abbastanza intelligente da non arrischiarsi di
capirla.
L’unico modo per riconoscere un valore
artistico a una pittura è quello di appenderla nel salotto di un commesso
comunale e verificare se è lo stesso in grado di conferire un gusto
all’ambiente.
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